Non so esattamente perché lo faccio, di sicuro non per collezionare “like”, ottenere un’impennata di commenti o catturare iscritti. Leggere pagine spruzzate di tristezza, realizzare che il mostro della sofferenza miete, sempre, nuove vittime, non sentendo alcuna pietà per loro, vorrei mi lasciasse indifferente, distaccata al punto tale da scorrere le parole e lasciarle andare, invece, m’inchioda a pensieri che solo il tempo mi ha permesso di imprigionare in un “racconto mai editato” e chiuderlo con la parola “fine”. Il sentiero è, per tutti, sempre lo stesso, varia la collocazione delle buche, l’alternarsi di salite e discese, ma non l’aggressività di eventi che trafiggono l’anima fino a lasciarla esanime. Ostaggi di una cordata d’interrogativi, compressi tra colpe instillate, che prosperano tra le ombre, protette da disagio e insicurezze, si affrontano le giornate strappando i petali di una margherita avvelenata. Dormire, mangiare, indossare lucida serenità e mantenere in piedi un minimo di vita sociale, uno sforzo immane dai risultati deludenti. La sensazione, tangibile, di andare a picco, di non avere le forze per risalire, una volta toccato il fondo, fidatevi, è pane per tutti. Nel periodo in cui Minosse mi faceva scoprire il dedalo del viver male, avrei voluto che chi lo aveva superato mi fornisse un navigatore per venirne fuori, penando solo quel tanto che anticipa il “mettere in ordine”. Oggi che della devastazione emotiva resta solamente la memoria ed un libretto d’istruzioni da non perdere, mi sembra giusto lasciar traccia della mia esperienza e sussurrare, con quel filo di voce che non irrompe e non pretende d’insegnare, che anche nel buio più totale si può accendere una luce. È nel dna della vittima, e non del carnefice, mettersi in discussione, farsi carico di una sconfitta non voluta, specchiarsi negli occhi del prossimo con sguardo cieco, scorgendo connotati manipolati. Non si è, mai, quella fetta d’inutilità che, con cattiveria o per ripulirsi la coscienza, riescono a farci credere. Non prova emozione, nel bene o nel male, colui o colei che, palesemente, non ha mai investito nulla, che nello sferrare una coltellata vive una perversa e malata liberazione. La disperazione e il sentire un dolore diffuso, difficile da quantificare, a posteriori, credetemi, saranno benedizioni, strumenti per venire a contatto con anche la più piccola scintilla di ciò che di bello ci compone. Fare a se stessi una dichiarazione d’amore, di quelle che nascono timidamente per poi travolgere, può sembrare folle, ma non lo è … gli altri hanno importanza, sicuramente, ma solo se in loro potremo riconoscere quel sentimento che ci siamo offerti per primi. Non ricalcate i miei primi passi, non fissatevi con gli occhi di chi usa il cuore, unicamente, come motore per campare, nutrite la capacità di valutazione e non vi sarà difficile notare che, oltre il confine, esiste chi vi somiglia, desideroso di offrire amore paterno, materno, fraterno o di intraprendere un cammino a due, tenuto insieme dai fili della sincerità e della comprensione. Per quanto mi riguarda, un pomeriggio, dopo essermi strizzata dalle lacrime, ho indossato l’abbigliamento sportivo e, in solitudine, sono andata a correre. L’ho fatto ogni giorno, anche se non mi andava, anche se desideravo affogare nel mio stesso pianto, e questo ha fatto sì che mi avvicinassero tantissime persone, dal vecchietto con il cane al bimbo col pallone, dalla madre di famiglia al single seduttore. Ho ricostruito un panorama nuovo e che mi appartiene, sopra quel maledetto cumulo di macerie. La molla scatta, basta toccare la “levetta” giusta …
6 anni fa.
… e vaffa … a chiunque mi faceva sentire un “secchione”!